Ma le solfare non diventeranno mai musei, nella concezione che dei musei abbiamo oggi. In quelle cavità buie, dove sono passate generazioni di siciliani, rimarrà presente, come sospesa, la loro voglia d'aria, la loro rabbia, la loro disperata aspettativa di giustizia. In fondo tutto è accaduto solo ieri.

Il passato ed il futuro hanno lo stesso colore in queste zone, quello della ruggine. Verghe contorte, silos scoperchiati, quadri elettrici sventrati, forge e "pese" divelte sono inutili ferraglie, mute cataste di metalli abbandonati in mezzo ad alberi e capre. Ma tra i fantasmi delle miniere restano anche i grandi macchinari, silenziosi monumenti a primitive tecnologie arrivati fino ai giorni d'oggi: enormi mulini, frantoi, calcarelle calcaroni e forni Gill, vagoncini e binari che il tempo e la ruggine non sono ancora riusciti a rimuovere e che ora diventeranno testimoni del lavoro dell'uomo, che da queste parti, per tre secoli ha coltivato l'albero del pane nel buio delle gallerie.

Tutte le miniere siciliane oggi sono state chiuse e dei meravigliosi cristalli delle solfare rimangono soltanto ricordi. Ma lo sfruttamento di questo minerale riporta alla mente anche tante storie, lamenti, sofferenze della gente di Sicilia.

Leonardo Sciascia, Pirandello, ed altri scrivevano:

"... Mio nonno era stato caruso, uno dei quei ragazzini che nelle solfare siciliane, venivano adibiti al trasporto del materiale. Era entrato in miniera all'età di nove anni, alla morte di suo padre, e vi restò fino alla fine dei suoi giorni..."

"... la miniera era terribile, soffocante, micidiale, inumana; tuttavia, nonostante lo sfinimento, la sera, quando rientrava al villaggio, mio nonno Leonardo seguiva le lezioni impartite da un prete. Imparò a leggere, a scrivere, a far di conto, divenne capomastro della solfara e poi passò all'amministrazione...."

In una guida turistica del 1859 Giuseppe Lanza parla della "pregevolezza dello zolfo" il quale, si per l'abbondanza che ne offrono le viscere di tutto il territorio siciliano, si per le mille speculazioni delle quali è stato lo scopo, merita l'attenzione di chi vuole studiare l'isola.

Anche la vita di Pirandello ne è attraversata, intrisa: vi lavora pure, nelle miniere del padre Stefano, ne raccoglie i benefici. E drammaticamente lo condiziona: nel 1903, la miniera dove il padre Stefano aveva investito tutto il suo denaro e la dote della nuora, viene devastata da un allagamento. Egli scrisse molto sulle miniere, tra cui deriva questo amaro stralcio:

"... appena i zolfatari venivan su dalla buca col fiato ai denti e le ossa rotte dalla fatica, la prima cosa che cercavano con gli occhi era quel verde là della collina lontana, che chiudeva a ponente l'ampia vallata. Qua, le coste aride, livide di tufi arsicci, non avevano più da tempo un filo d'erba, sforacchiate dalle solfare come da tanti enormi formicaj e bruciate tutte dal fumo..."

"... sul verde di quella collina, gli occhi infiammati, offesi dalla luce dopo tante ore di tenebra laggiù, si riposavano. A chi attendeva a riempire di minerale grezzo i forni o i calcaroni, a chi vigilava alla fusione dello zolfo, o s'affacciava sotto i forni stessi a ricevere dentro ai giornelli che servivan da forme lo zolfo bruciato che vi colava lento come una densa morchia nerastra, la vista di tutto quel verde lontano alleviava anche la pena del respiro, l'agra oppressura del fumo che s'aggrappava alla gola, fino a promuovere gli spasimi più crudeli e le rabbie dell'asfissia…"

"... i carusi, buttando giù il carico dalle spalle peste e scorticate, seduti su i sacchi, per rifiatare un po' all'aria, tutti imbrattati dai cretosi acquitrini lungo le gallerie o lungo la lubrica scala a gradino rotto della buca, grattandosi la testa e guardando a quella collina attraverso il vitreo fiato sulfureo che tremolava al sole vaporando dai Calcheroni accesi o dai forni, pensando alla vita di campagna, senza rischi, senza gravi stenti all'aperto, sotto il sole, e invidiavano i contadini. Beati loro!..."

continua